Phubbing, una cattiva abitudine: ci sei cascato anche tu e perché devi preoccuparti se lo fai spesso

Si tratta di una pratica in cui, chi più chi meno, cadiamo tutti. E che se non arginata può anche sfociare in una vera e propria dipendenza.

Un’abitudine che per farci stare al passo coi social ci fa diventare antisocial: ecco cos’è il phubbing.

uomo ignora donna
Nursenews

Si sa: la diffusione universale del telefonino ci ha connessi praticamente al mondo intero. Ma ha universalizzato anche la cafoneria, creando una società globale delle cattive maniere. Pensiamo agli “smombies” (neologismo che deriva dall’unione di smartphone e zombie), ovvero gli zombie col telefonino che si aggirano pericolosamente per strade e marciapiedi con lo sguardo incollato allo schermo del cellulare.

Phubbing, cosa vuol dire e cos’è

Ma c’è anche un’altra cattiva abitudine entrata ormai nella nostra quotidianità ormai fatta a colpi di smartphone. La chiamano phubbing. Anche in questo caso è una parola composta dall’unione di due termini inglese: phone, che come noto sta per «telefono», e snubbing ovvero «snobbare». Il phubbing indica, come avrete certamente già capito, la tendenza a ignorare completamente la persona che abbiamo davanti per manovrare col nostro amato telefonino.

Una pratica ormai ricorrente – soprattutto tra i giovani, ma anche tra meno giovani il fenomeno è ben diffuso – quella di stare a visualizzare lo schermo dello smartphone, sovente in maniera meccanica, quasi inebetita, mentre il nostro interlocutore prova a rivolgerci la parola. E alzi la mano chi può dirsi “innocente” e tirarsi fuori da questa fastidiosa abitudine. Chi non l’ha mai fatto almeno una volta? S’impone un esame di coscienza.

Phubbing, una cattiva abitudine molto diffusa

Ragionando più a freddo si impone anche qualcos’altro: cioè la constatazione che il gesto di consultare meccanicamente il cellulare in presenza di altri è una forma di maleducazione. Trascurare la conversazione e ignorare il nostro interlocutore è indubbiamente da screanzati. Non ci sono dubbi che sia una cattiva abitudine, una mancanza di rispetto. Ma al tempo stesso la diffusione del phubbing appare così estesa da essere tollerata, se non socialmente accettata.

Per cercare di capire la “meccanica” e le origini del phubbing si sono mobilitati i sociologi, pronti ad applicare il loro armamentario a questo fenomeno. Alla base del phubbing chiaramente c’è l’ormai arcinota – oltre che diffusissima – dipendenza psicologica dai nostri smartphone. Quella che ci spinge a sfruttare ogni momento possibile per scrollare meccanicamente lo schermo del cellulare.

Fermi che siamo al semaforo rosso, a piedi o in macchina, e subito veniamo presi dall’impulso che ci ingiunge di consultare subito lo schermo per non perderci l’ultima notifica di WhatsApp. Alla prima pausa utile eccoci di nuovo lì: a scorrere compulsivamente le immagini sul telefonino, con una mossa dal sapore pavloviano. Una specie di riflesso condizionato che ci fa estrarre il cellulare dalla giacca o dalla borsa senza nemmeno esserci resi conto della meccanicità di quel gesto.

Senza parlare dei teenager, presso i quali lo smartphone sembra essere diventato una sorta di protesi, un prolungamento tecnologico della mano.

Phubbing, quando diventa patologico

Alla base di questi comportamenti compulsivi ci sarebbe, a detta degli esperti, un disturbo dell’autocontrollo. Si fa presto, in buona sostanza, a passare dal phubbing a una condizione di dipendenza patologica identificata con la sigla FoMO, acronimo che sta per Fear of Missing Out, letteralmente la paura di essere tagliati fuori. In un mondo dove tutti sono connessi no-stop 24h l’espressione FoMO indica il terrore della disconnessione. È l’ansia di essere esclusi dai circuiti delle informazioni o dalle relazioni sociali, ormai condivise in maniera esasperata attraverso le notizie e i social network. Da qui la paura di vedersi, appunto, tagliare fuori, di essere disconnessi. E dunque l’insorgenza di uno stato d’ansia che ci spinge a consultare freneticamente il nostro telefonino.

Forse la lettura di queste definizioni può farci riflettere e permetterci di individuare un nostro comportamento al limite (sempre che il limite non sia già stato superato) della compulsione. E al quale magari nemmeno abbiamo mai fatto molto caso.

Un test per capire se siamo dipendenti dal cellulare

Un primo indicatore per stimare il nostro grado di dipendenza dai dispositivi tecnologici è il numero di volte in cui attiviamo lo schermo dello smartphone nel corso della giornata. È possibile verificarlo attraverso la funzione di monitoraggio del tempo messa a disposizione praticamente da tutti i sistemi operativi che girano sui nostri cellulari, Android o iOS, hanno una funzione di monitoraggio del tempo. La troveremo facilmente consultando le impostazioni.

In questo modo potremo visualizzare le statistiche di utilizzo del telefono e il numero di attivazioni quotidiane. Dare un’occhiata alle statistiche di utilizzo del nostro smartphone può essere è il primo passo per comprendere quanto tempo della nostra vita effettivamente passiamo con questi dispositivi in pugno. E per chiederci, in fondo, se ne vale davvero la pena.

Impostazioni privacy